L’industria tessile è una delle maggiori fonti di inquinamento e la tintura dei tessuti risulta essere al secondo posto fra le maggiori cause di contaminazione dell’acqua sul pianeta. I capi che acquistiamo sono infatti pieni di additivi e coloranti sintetici a base di metalli pesanti e composti chimici dannosi per la nostra salute e per l’ambiente. Per la salvaguardia degli ecosistemi e del nostro patrimonio idrico e per la nostra salute è quindi importante una maggiore consapevolezza da parte di produttori e consumatori anche riguardo ai materiali e ai processi utilizzati nella tintura per tessuti.
I vantaggi in termini di sostenibilità nel tingere tessuti con coloranti naturali sono numerosi.
Essendo un procedimento naturale a base di materie prime organiche la prerogativa principale della tintura naturale è che non crea rifiuti tossici riducendo così l’impatto ambientale. Rispetto alle tinture a base chimica, il processo di tintura naturale utilizza inoltre una quantità di acqua inferiore. Infine contribuisce al benessere della nostra pelle dal momento che non contiene additivi chimici irritanti. La pelle è l’organo più esteso del nostro corpo e protegge i tessuti sottostanti, quindi va protetto. I prodotti φhillacolor sono stati studiati in modo da ottenere un “indice pH” il più possibile simile a quello naturale della pelle che si attesta a valori fisiologici leggermente acidi, normalmente compresi tra 4.2 e 5.6.
La riflessione sul colore passa nella maggior parte dei casi per la vista. Laura Cortinovis e Francesca Perinetti si occupano dell’incontro fra il colore e il tessuto da molti anni. Laura Cortinovis Architetto per i primi 35 anni della sua vita, è stata catturata da una riflessione: «La pelle è l’organo più esteso del corpo umano. La pelle è perennemente a contatto con i tessuti». Questa consapevolezza si è intrecciata con l’interesse per il tessuto, sfociato nella collaborazione con la Fondazione Pistoletto, con cui condivide l’obiettivo di dar vita a una moda più sostenibile. «L’idea di Phillacolor nasce da una domanda, entrando in un supermercato. Ha visto molti colori chimici, e si è chiesta perché non ci fossero in commercio colori naturali. Perché non dare ai clienti la possibilità di scegliere?»
La nascita di Phillacolor in Valle d’Aosta ha alla sua base un lavoro di ricerca storica sugli usi dei colori naturali e sulle tinture praticate sin dall’antichità. «Il processo delle nostre ricette si associa a colori che somiglino il più possibile al pH della pelle, per ridurre il rischio di reazioni allergiche», spiegano Laura e Francesca. Il progetto è arrivato alla fase di elaborazione finale nel 2019, ed è stato presentato insieme a Cittadellarte Fashion B.E.S.T. (Better, ethical, sustainable, transformation) a White Milano. Una ricerca, quella di Laura e Francesca, che parte dalle pratiche tintorie italiane diffuse prima dell’industrializzazione di metà Novecento. «Nella pianura padana, e fino alle zone collinari e montuose nelle Marche, erano diffuse le coltivazioni di piante tintorie, poi soppiantate in poco tempo con la rivoluzione industriale. Oltre alle piante, è andato perduto il sapere annesso alla loro lavorazione». Robbia, reseda, guado e iperico erano e sono in grado di fornire colori in modo naturale. L’intuizione di Phillacolor è stata quella di «recuperare ricette classiche con il maggior apporto possibile di innovazione, per ridurre la quantità di acqua impiegata nelle tinture. Ha avuto modo di vedere i processi di tintura industriale e sono rimasta colpita dalle quantità d’acqua utilizzate e dai residui prodotti», racconta. «Rimanevano inoltre alcune perplessità relative all’impatto delle stesse tinture naturali. Anche i loro processi richiedevano numerosi litri d’acqua».
L’evoluzione praticata da Phillacolor passa per la tintura a freddo. «Per una maglietta da duecento grammi occorrono circa cento millilitri di colore e cinquanta d’acqua. Il fissaggio avviene tramite l’ossidazione dell’ossigeno. I colori hanno una ricetta molto concentrata, che può essere diluita in base alla tonalità che si desidera ottenere». Mediamente la proporzione è di due a uno e mezzo, ma varia in base allo spessore della fibra impiegata e alla sua capacità di assorbire i colori, maggiore nel caso della seta. Le tipologie di tintura sono tre e usano solo elementi vegetali. Dye è il classico colore per tingere a immersione per ventiquattr’ore a freddo, «prodotto per mettere in pratica l’innovazione tramite la sensibilizzazione verso le tecniche tradizionali», spiegano Laura e Francesca. Ci sono poi le tempere e gli acquerelli, che si possono impiega a freddo o a vapore: «Una tecnica che personalmente gradisco meno, per il suo maggior impiego d’acqua». Oltre alla riduzione dell’acqua, Laura e Francesca sottolineano come le tinture richiedano solo la manualità dell’essere umano, eliminando così il bisogno di ricorrere all’energia elettrica. «Abbiamo anche iniziato a praticare lo stampaggio in vegetale, recuperando le foglie secche degli alberi. Spennelliamo le foglie con le nostre tempere, oppure usiamo l’eucalipto che non richiede colore aggiuntivo, per poi stampare il colore sui capi. Perché le foglie rilascino il colore, in questo caso è obbligatorio l’uso del vapore».
La riduzione dell’impiego d’acqua è consistente. Secondo Phillacolor «l’impatto sulle acque superficiali si azzera. Si azzerano anche i processi e i costi di depurazione. I colori naturali, anche se hanno dei residui di lavorazione, non impattano quanto gli scarti dei colori sintetici». Un altro vantaggio è legato alla riduzione della filiera. «Per ottenere i materiali necessari abbiamo esplorato il territorio valdostano, raccogliendo le piante spontanee per valutarne i risultati tintori. Ci siamo rivolti ai coltivatori locali che ci hanno fornito i loro scarti. Prevalentemente sambuco, rabarbaro spontaneo e prunus, che producono sfumature di verdi e di rosa». Sulle difficoltà nell’uso delle materie prime naturali, Phillacolor sottolinea che «la tintura naturale non può soppiantare quella sintetica, altrimenti si creerebbe un problema inverso di sostenibilità legato allo sfruttamento intensivo di altre risorse». In tal senso si rende utile il recupero, anche dei colori di sintesi. Ci vorrebbe qualcuno interessato a convertire la propria tintoria industriale ai metodi naturali. È necessario indirizzare la sensibilità del pubblico e la domanda in tal senso. In ambito industriale si può intervenire sulla resa del colore grazie alla produzione in serie, dai risultati standardizzati: «La resistenza più forte sta nell’educare l’utente finale ad accettare le particolarità delle tinture naturali. Non sono lucide e non restituiscono colori saturi come quelli di sintesi. A volte si resta colpiti dal fatto che la tonalità possa cambiare in un giorno di pioggia rispetto a un giorno più secco. È sufficiente che l’umidità dell’aria cambi, per alterare impercettibilmente la resa della tintura».
In attesa del salto a un modello produttivo su scala maggiore, Phillacolor nel 2021 avvierà la coltivazione di piante autoctone non protette grazie ad accordi con i coltivatori di zona, per ottenere un maggior numero di colori quasi a chilometro zero. Si arricchirà anche la disponibilità di colori per i materiali non tessili: oltre alla linea per carta e tela, ce ne sarà una per il legno a base di gomma vegetale.
Fonte: phillacolor.com